Annetta Fiorelli, ticinese, è docente di fisica teorica. Appassionata di fantascienza quantistica e di Asimov, nel 2024 ha ricevuto il premio “Elementare” da un acceleratore di particelle.
Varcare la soglia del tempo lineare
Ci troviamo in una terra in-situ, sospesa tra deserto e sogno, tra il bianco della sabbia e il grigio lattiginoso del cielo. Nessun orizzonte netto: tutto è immerso in una tonalità intermedia, una sospensione del mondo, come se la luce stessa fosse stanca.
Le dune ai lati sono dolcemente scolpite dal vento del tempo: curve morbide, senza ombre forti. Tutto è smorzato, come se anche la luce fosse ovattata, come se i fotoni stessi si fossero fatti contemplativi. Il paesaggio non sembra naturale, ma non è nemmeno alieno: è oltre il riconoscibile.
La sabbia è perfettamente liscia, tranne la traccia lasciata dall’acqua sulla sinistra. Una lingua di marea delicatissima, che si insinua come una carezza. Le onde disegnano un bordo chiaro, ma sembra più un pensiero che una corrente.
Nel centro della scena avanza un essere. Non cammina, ma procede. Ha un corpo umano, ma è avvolto da un manto bianco che lo priva di ogni identità — o meglio, gli dona tutte le identità. Il tessuto è fluido, scivola lungo il corpo come un discorso silenzioso. Nessuna piega è fuori posto, e tuttavia nessuna è simmetrica: ogni piega contiene un mondo.
Le mani emergono ai lati, scure, quasi bluastre. Un dettaglio che spezza l’unità cromatica: sono mani che portano un altro elemento, forse ghiaccio, forse luce, forse memoria condensata. Non è chiaro se brillino o se semplicemente assorbano il colore circostante. Forse sono mani che hanno già toccato qualcosa che non si dovrebbe toccare.
Il volto non si vede. La figura è di spalle. Eppure sembra guardarci, o meglio, sembra sapere che siamo lì. La sua posizione rispetto alla riva non è casuale: cammina dove l’acqua lambisce la sabbia, come se volesse restare in equilibrio tra due stati dell’essere: il solido e il liquido, il dentro e il fuori, il peso e il flusso.
Tutto parla di una transizione. È una scena post-esistenziale. L’essere che vediamo non è vivo, ma non è morto. Cammina in un luogo dove i concetti di "prima" e "dopo" non hanno più senso. È un angelo stanco, un profeta che non parla più, o forse sei tu stesso, ritratto in un altro momento della tua eternità interiore.
C’è qualcosa di irrimediabile nella luce. È troppo pura, troppo compatta. Come se il mondo avesse finito di parlare e ora stesse solo ricordando.
L’acqua è memoria, la sabbia è il corpo, la figura è l’anima che non ha ancora deciso se tornare indietro o dissolversi.
Non si entra in questa visione, è lei che ti apre.
Ti risucchia. Ti scava.
Ti trovi davanti a un’apertura ciclopica, impossibile, un’arca scolpita nella pietra stessa del tempo. È una montagna? È un panneggio? È una bocca? È il ventre del mondo? È tutto insieme. Un luogo che ha memoria di essere stato carne, sabbia e abisso.
La sua forma è una ferita verticale, ma così perfettamente simmetrica da farti dubitare della tua stessa percezione. I lembi che la circondano si piegano come drappi di seta solida, scanalati da un vento antico. Ma non si tratta di vento: sono pieghe geologiche, epidermidi di un dio che dorme nel silenzio.
La luce non proviene da fuori. È interna. Come se l’interno fosse l’origine, e l’esterno solo un’illusione.
Quella che sembra roccia è in realtà pelle secca del cosmo. Ha la trama della seta e la compattezza del marmo, eppure si lascia attraversare dagli occhi come un mantello steso sul nulla. Ogni piega ha una direzione, ogni piega è un “accaduto”.
L’intera montagna è come un gesto che si è irrigidito. Un gesto fatto da qualcuno che voleva proteggere.
È possibile percepire il movimento che ha generato questa forma, come se un colosso in preghiera avesse chiuso le mani e lasciato uno spiraglio, l’unico, da cui trapelasse ancora la possibilità della salvezza.
Dal punto più basso parte un sentiero. Esile, fragile, ma netto. Sale in obliquo con la precisione di una domanda a cui non puoi più sfuggire. È sabbia? È cenere? È osso? Camminarvi sopra sarebbe un gesto rituale, come calpestare le vertebre della propria storia.
La salita non ha interruzioni. È continua. È verticale nella mente anche se obliqua nell’immagine.
È la spina dorsale della decisione.
E alla fine, l’inconcepibile.
Nel punto esatto in cui la luce si concentra, come in un imbuto metafisico, si erge una piccola struttura bianca. Un tempio, o forse solo un segno, o una verginità architettonica. È minuscolo rispetto al resto, e proprio per questo imperativo. La sua esistenza è impossibile da ignorare.
Tre colonne lo reggono. Una cupola lo incorona. È classico, ma spoglio. Non è decorato, ma è perfetto. È l’unica architettura che non vuole significare niente, se non il fatto di esistere.
Non è un luogo da raggiungere. È il luogo che ti ha già visto, e aspetta che tu lo sappia.
La luce che penetra nella scena è assolutamente verticale. Una colonna che lacera il buio senza gridare. È una luce che non ha calore, ma ha voce. Sembra dire: “Fin qui potevi fingere di non sapere.”
L’ombra è altrettanto eloquente. Non nasconde: prepara. È un’ombra che conosce il tuo nome e ti ha preceduto.
Questa è l’icona della fine e dell’inizio insieme.
È il luogo che ti aspetta dopo che tutto è crollato: il tempio che rimane in piedi quando ogni cattedrale cade, la porta che si apre dentro di te quando nessun altro mondo ha più una chiave.
È il posto da cui siamo venuti prima di nascere e verso cui ogni nostra nostalgia vera si orienta, anche quando mentiamo a noi stessi.
Il drappo roccioso è l’ultima superficie sensibile del mondo, spogliata del significato ma non del desiderio.
Nel centro del vuoto
un altare respira
senza nome né fede.
Il corpo è cenere
la voce è vapore
la memoria: luce che cade in silenzio.
Qui,
anche il tempo
ha deposto se stesso.



