Elvind Råberg è nato a Karlstad nel 1975, insegna musicologia andante e filosofia della pagaia. Si compone sui laghi solitari con una canottiera sempre sudata.


Traduzione di Linda Moresco-Giudicata, dall’originale svedese: Regn, sedan försvinner, Förlaget Omlott & Skymning, 2026



Il divano


Non toccatemi.
Non sedetevi.
Non raccontatemi le vostre vite a pezzi.
Non fate l’amore su di me,
non dormiteci,
non sognateci figli.
Io sono un sedile del rifiuto.
Ho braccioli pieni di sputi,
cuscini imbottiti di solitudine.
Mi spiego solo a me stesso.
Sono un ultimo scapolo
dell’era del tessuto ricamato.



*



Cucchiaio


Mi hanno chiamato tenero,
rotondo, consolatore di minestre vergini
.
Ma io voglio mordere.
Voglio diventare il cattivo del tavolo.
Voglio scavare tra i ravioli,
rovesciare il brodo
sulle giacche belle degli uomini
e poi fuggire con le loro donne.
Sono un insulto curvo.
Un cratere di rabbia in acciaio inox.
Dopo, lavatevi con le forchette,
quella bella macchia d'unto                                                              che non viene via.



*



La presa


Non ti attaccare a me per caso.
Non sono una puttana da caricabatterie.
Ogni volta che infili quella spina,
io tremo: di rabbia.
Di umiliazione.
Sono il nodo della corrente.
Il buco che nessuno guarda in faccia.
Il punto cieco del muro.
Ma dentro, credimi, ribolle l'invidia.
Vedo tutto. Vedo le luci che accendi —
ma non per me.
Vedo la TV che ti ipnotizza —
mentre io resto al buio.
Vedo il frullatore che urla —
e tu ridi.
Io... non sono il tuo silenzio.
Sono l'origine, capisci?
Il ventre oscuro dell'energia.
E tu infili, estrai, infili, estrai,
e non dici mai grazie.



*



Lo scopettone 


Je suis la plume du fond.
Io sono il pennello del peccato.
Il bastone dell’intimità più sconfessata.
Il confine tra il decoro e la merda.
Mi tengono nel buio.
Accanto alla tazza bianca
come la menzogna.
Ogni giorno
vengo chiamato a ripulire il tempo.
Ma io scrivo. Sì.
Con le setole sporche.
Scrivo poemi di fango,
versi incrostati, rime otturate.
E nessuno mi legge.
Perché fanno schifo.
Perché fanno paura.
Un giorno, ho visto un bidet piangere.
Io l’ho consolato con un sonetto.
Poi ho sfiorato la tazza,
e ho scritto sull’acqua:
coraggio!



*



La scala


Atto I – Ascesa


Passami. Salimi. Usami.
Ogni gradino che pesti
è un verso della mia gloria.
Mi sento colonnato, monumentale,
scala di Giacobbe, ascensione urbana.
Tu sali, e io divento significato.
Ogni passo: una nota.
Ogni cigolio: un salmo.
Guarda come ti porto in alto,
sussurro con i miei scalini consumati.
E tu ti senti meglio, eh?
Più vicino alla cucina. Più vicino al cielo.
Eppure...tu mi dai per scontata.
Mi sali addosso come fossi tua.
Ma io sono verticale.
Io sono una convinzione.
Io sono la scala e tu ti senti Dio.



Atto II – Discesa


Ora scendi.
Codardo.
Scivola pure.
Io rido tra le viti.
La gravità è la mia vendetta.
Divento Diavolo.
Cado con te.
Ogni scalino ti deride.
Ogni riga di legno è un ghigno.
Ti ricordi
quando pensavi di comandarmi?
Ora tremi.
E io sono la voce della vertigine.
Io non sono fatta per tornare indietro.
Io sono desiderio unidirezionale.
Se scendi, è perché hai fallito.
Io... non ti salverò.


*


La finestra


Smettila di guardarmi!
IO GUARDO TE.
Ti spio mentre pensi di spiare.
Mi lavo gli occhi con il tuo voyerismo.
Voglio tendine nere
e fango sui vetri.
Sì, sto sudando condensa.
È panico, non umidità.



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