Giacomo Graziani è nato a Milano, dove attualmente vive. È architetto e urbanista. Nel 2009 ha contribuito alla fondazione del Centro della Poesia Cremonese; nel 2011 pubblica, per “La vita felice” il primo libro di poesie, Il fulmine e la tortora. Con lo stesso Editore nel 2020 esce La corteccia del mondo. Nel 2019 con l’ Editrice Pazzini e la prefazione di Paolo Borghi, stampa la raccolta Sflezan in dialetto della bassa Romagna.



Non da me viene il canto

Non da me viene il canto
né dagli archi della musica antica
se dolce curvando dipana
sulle corde di violini taglienti
un risorgimento di primavera.
Da polverose strade esala la canzone
dall’erba secca sugli argini del fiume
dall’ombra verde delle foglie estive.

Non mio sale alto un canto
permane come un grido
milioni di cicale
stridono dentro il petto.
Non esce la mia voce
troppi canti felici mi risuonano
che qui vorrei cantare tutti insieme.

Perduti cari volti                                                                    
la foschia v’allontana
nel verde bruciato dei campi
tutti vi avvolge e vi confonde.
Tutti vi tocca la mia mano
sfiorando quest’erba sbiancata
come i capelli di una vecchia madre
ancora e ancora in un rabbioso addio.


*


Lascio l’estate

Lascio l’estate molle al suo verdume
cerco l’inverno secco
pulito come lama
quando su orizzonti deserti
traccia nell’aria ogni piccola trama.

Amo la terra dura, scalfita dall’aratro
vado per botri asciutti
d’esili canne spente sfioro la venatura.

Sotto il grigio del cielo cerco vite rapprese
se nel gelo del vento
serbano linfa che le tiene accese.


*


Il giardino nell’aria



Con terra d’aria
hai fatto il tuo giardino.
Manciate di terra straniera
a riempire vasi appesi ad un balcone.

Di tutta la terra che fu nostra
tanta non ne rimase
per crescere un gelsomino.
Ma con dita pazienti tu
nell’aria del tuo balcone
hai fatto fiorire profumi di ricordi.
Li porti sulla mensa festosa
dei nostri figli cresciuti in povertà.

Timo sottile, basilico regale,
ventosa lavanda, menta inebriante,
pungente rosmarino.
La ricchezza di ogni cosa
spogliata della terra, fatta essenza.

Di quel profumo
d’un soffio nell’aria
musica lieve
restiamo in ascolto.


*


Per te devotamente scrivo



Per te devotamente scrivo
indocile tristezza.
Per te indocilmente vivo
spogliato di certezza.

Quando fu che delle dita ingenue
fuggì l’ardita tenerezza,
quando cadde l’invito dell’ebbrezza
a scoprire il tuo corpo
tesoro di smarrita meraviglia?

Ora il nostro ricordo s’assottiglia
di quel sole che pallido fiorì
da così tenera conchiglia.


*


Se ti vedo



Mi mancano le gambe se ti vedo
ricordandoti in sogno, nel pensiero.
Io proteso al tuo passo
che incerto mi raggiunga
la tua fronte piegata in un’attesa
di più ferme promesse d’alleanza.

Non so se in questa fuga nel passato
m’insegui, o ti rincorra la smarrita
speranza di riparo alle mie assenze.

Mi desta ancora il vento di quel mare
quando ti stringo a me viva nell’aria
azzurra vastità da attraversare.


*


Il treno batte ritmando


Il treno batte ritmando
colpi attutiti sulla terra antica.
Nella pianura cespugliosi ulivi,
filari in fuga tesi all’orizzonte.

Ricordo, fu nel tuo tempo l’albero che amavi:
“…non la quercia – dicesti – ma l’ulivo,
così torto e paziente
a crescer lento in silenziosa pena.
Amo il mite saluto di verde cinerino.”

Mi vegliano caste quelle parole amiche
se al tuo ondeggiare il mio sguardo riposa,
se un calmo respiro è la pace dell’anima
come il tenue fruscìo che dai rami bisbiglia.

Lampi di vetri, un biancore di case,   
ruotano strade intrigate dal sole
lunghe ferite dritte verso il mare.


*


Sul tavolo



Sul tavolo
sono rimasti i tuoi occhiali.
Le tue scarpe sporgono dal letto.
Sul ripiano del bagno
sono allineati i tuoi profumi.
Hai lasciato sulla sedia
la tua vestaglia.
Lo so, sei sul balcone
ad annaffiare i fiori.
Ti aspetto in cucina;
ho preparato il caffè.




*

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