Alessandro Martini

Recuperi


Alessandro Martini (Cavergno 1947) ha studiato e insegnato letteratura italiana all’Università di Friburgo. Il suo ultimo libro di poesie, Una specie di canto,                               è apparso “alla chiara fonte” nel dicembre 2019.
Tranne la prima, inedita ma della stessa stagione delle altre, queste
sette poesie provengono dalle sue prime due raccolte (Fior’, frondi,
herbe
, Lugano, 1996 e Restauri, Friburgo, 1999). Per lo più sono state
ridotte e variate: recuperi.



PRIMO AMORE


Era la più fine e la più bianca
dell’intera scolaresca.
Dopo il rosario, a sera, prima
che le mamme venissero a cercarci
ci si correva dietro
per le vie del paese.
Ci si trovava con il cuore in gola
senza sapere che dirsi,
se non per darsi un nuovo appuntamento
di giorno, un giorno di vacanza
un po’ più fuori mano
sulla soglia di un fienile.
Su quella soglia le passavo i libri
che al mio posto le parlassero di noi.
Poi un giorno di settembre
partii per il collegio, per gli studi.
Non ci furono più doporosari.




SESTO: NON COMMETTERE ATTI IMPURI


Li chiamavano così.
Commettemmo quanto ci riuscì,
in brevi soste per forre e per fratte,
ai Saleggi assaliti
da torme di zanzare,
ai monti contro greppie ormai disfatte,
contro tutto, contro tutti,
contro i nostri, lottando fra noi due.
Con tutto questo mai sapemmo
ciò che in camera si puote.
Atti incompiuti. Pura nostalgia.
Quella che emana dall’Incompiuta
quando attacca pianissimo
l’allegro moderato al primo tempo.




PASSEGGIATA


Ogni volta si va un poco più lontano.
Non ci diciamo che è tardi.
È come se ci fossimo
appena visti, dici. Come, dico,
non avessimo mai smesso
di camminare assieme.
La mia ansia ritrova un po’ di quiete,
la tua calma s’incrina: «Sino a quando?»
Mi hai dato un po’ di tempo. Chiedi tempo.
L’aria noturna insinua un’aria d’opera:
«Che farò senza Euridice,
dove andrò senza il mio bene?»
Andiamo avanti senza voltarci.




RETORICA BAROCCA


Le metafore, sai, sono solo metafore:
se ti dico una roccia
ti accerto indistruttibile,
non del tutto impenetrabile.
Sei roccia perché stabile
centro del mio vagare,
a piombo dei castelli miei di carta,
pendolo della pendola,
sasso che col suo tonfo
misura l’altitudine del pozzo,
spiracolo di grotto
cantato dal maggior poeta nostro,
cava da cui ricavo le mie piode.




CONIGLIO D’ALICE


Quel che alla nostra età
più non si sa che sia
tu me lo taci ed io te lo cito
quando lo stano di tra le carte.
Ancora lo rincorro
là dove non mi lasci più cercare.
Certo anche tu lo devi aver rivisto.
A volte accenni a qualche nascondiglio,
senza parere, battere ciglio.
Cuore e coraggio: una sola parola,
forse in te la stessa cosa.
Chi ce l’ha non ne va in cerca,
sta zitto e se la tiene.




«BUON SANGUE NON MENTE»


E la mente risale al nonno Dato
chino sui suoi cavagni, le sue gerle.
Cercava per le sóstene a solivo,
a luna nuova, verghe d’avellano,
ne traeva paziente lunghe liste,
dette lengistri, atte all’intreccio.
Mi resta un suo cestone per il pane.
Le bambine ci ammucchiavano gli orsacchi.
Anche mio padre aveva mani d’oro,
vedi a Foroglio le ringhiere in larice,
le pergole, i recinti, rifatti solo ieri,
mani capaci, certo, anche a far versi
(questo per sangue intendono)
sul noce il pioppo il frassino l’ontano.
Di questi anch’io ne ho fatti ormai parecchi.
Perché mai sento il mio sangue bugiardo?





GELSOMINO IN VASO


Spunterà certo un piccolo fiore
da quel tessuto di verde tenero.
Non sarà rosa, non sarà giglio,
non urna molle o siepe alle spalle,
non altro simbolo che ci riguardi.
Parlagli un poco il mattino, la sera,
prima di uscire, quando rientri:
farà, vedrai, tanto bel campo
al nostro intermittente conversare.




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